Sapevo che cercare di
descrivere la valanga di emozioni che questa avventura newyorkese ci ha regalato
non sarebbe stata una impresa facile, ma non immaginavo di non riuscire a
trovare le parole per raccontare cosa significa questa gara. Per la Maratona di
New York dividere l’esperienza sportiva da quella umana è praticamente
impossibile, le due cose si mescolano, si fondono, si incrociano come i taxi
gialli nel traffico cittadino della grande mela.
Non è facile
raccontare di questa città e della SUA maratona e puntualizzo volontariamente
questo “SUA” perché questa gara, a quanto ho capito, appartiene a New York, ad
ogni suo singolo cittadino che la vive in prima persona, da protagonista, pur
non correndola o non avendola mai corsa nella stragrande maggioranza dei casi.
La vive come un giorno di festa, come un Natale, un ferragosto, un matrimonio.
La partecipa in modo totale, dove il minimo che può fare è augurati buona
fortuna i giorni precedenti, quando scopre che sei li perché devi correre la
domenica successiva e poi su salendo fino ai più impensabili tributi a noi
runners protagonisti di questa avventura.
Non è facile dicevamo
ma nel cercare di fare uscire sentimenti ed emozioni non posso fare a meno di
ringraziare tutto il gruppo che mi ha accompagnato durante questa esperienza. Un
mix di persone tanto eterogenee quanto unite dalla stessa passione per la corsa,
vissuta,come una malattia ai diversi stadi della sua evoluzione. Cristiano e
Denis che hanno pazientemente sopportato i miei “concerti” notturni, dormendo
solamente qualche ora per notte. Gianluca che si è prodigato organizzando
l’intero viaggio. Michele che mi ha spesso accompagnato a scoprire la città ,
Gigi con la sua esperienza e la saggezza dei suoi sessant’anni e poi Renzo,
esplosivo e sanguigno mattatore e Walter discreto, concreto e fortissimo
podista.
Non rimane molto da
raccontare, non è lo scopo di queste righe, tuttavia come non ricordare l’arrivo
a Manhattan con il tipico taxi guidato da un tipico autista pakistano, la vista
mozzafiato che regala la cima dell’empire state building, la solennità di Wall
Street , lo stagliarsi della leggendaria statua della libertà nella baia della
città, il profondo disagio provocato da Ground Zero e poi il caos di Chinatown
la vivacità di Little Italy, la particolare vocazione artistica di Soho, il
profilo mozzafiato della sky line di Manhattan dal ponte di Brooklyn
all’imbrunire.
Qualche dettaglio
sulla gara, in un articolo che dovrebbe parlare di corsa, sarebbe quantomeno
auspicabile. Quest’anno è stato l’anno della tre partenze ed i commenti su
questa novità di coloro che hanno già corso a New York non sono stati
entusiastici. Personalmente non posso esprimere un giudizio se non il rammarico
di vedere ai vari intermedi i tempi della “prima wave” piuttosto dei miei. Dopo
il freddo sofferto nella zona di partenza e sul leggendario ponte di Verrazzano
ci siamo immersi nel caldo abbraccio della folla di Brooklyn dove abbiamo
finalmente tolto la felpa e siamo riusciti a sfoggiare la magnifica maglietta
creata da Denis appositamente per l’occasione che ci ha regalato l’affetto di
migliaia di tifosi lungo il percorso che si sono sgolati gridando ITALIA, ITALIA
al nostro passaggio.
Trascinati
dall’entusiasmo della folla io e Gianluca abbiamo accelerato il passo portandoci
a ritmi che ci proiettavano attorno alle 3 ore e 45 minuti. Abbiamo lasciato
indietro Michele e Denis ed avevamo già perso Cristiano e Renzo poco dopo il
ponte.
Alla mezza maratona a
causa di un pit-stop tecnico al bagno Gianluca mi abbandona, poco dopo
all’altezza del Qeensboro bridge comincio ad accusare i primi segni della
fatica e nonostante l’ingresso a Manhattan mi regali un bagno di newyorkesi
urlanti soffro durante tutta la first ave al punto che come al solito medito il
ritiro. Rallento il passo e gestisco le forze residue misurando ogni passo. Nel
Bronx sono ormai solo da un pezzo aspetto i crampi da un momento all’altro, ma
invece dei “soliti” polpacci questa volta sono le gambe e le piante dei piedi e
farmi male. Arriva la quinta strada siamo al 35 km e non posso mollare adesso
costeggiando il Central Park avverto stille di dolore ad ogni passo, un
corridore mi vede caracollante e mi invita a proseguire dice di essere di New
York e che quelle maledette “salitelle” di Central Park le ha fatte mille volte
e mi giura che sono finite … era un bugiardo ma che importa! Dopo l’ultima
uscita rientriamo nel parco all’altezza di Columbus Circle mancano 500 mt , o
sono piedi? Non lo so. Non capisco più niente! Vedo il traguardo in lontananza,
riesco persino a dare una sbirciata al cronometro … sono sotto le 4 ore.
Alzo le braccia al
cielo gli ultimi passi sono un misto di gioia e sofferenza, mi commuovo e mentre
qualche lacrima riga le mie guancie lascio che mi mettano la medaglia al collo e
bacio addirittura la ragazza che lo fa … - “good job”, mi dice… good job, good
job Davide, mi ripeto io.
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